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L'alambicco di Antoniozzi

Riportiamo in vita il teatro Unione

di Alfonso Antoniozzi

 

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Ho letto con estremo piacere una notizia riguardante il teatro dell’Unione: pare che in consiglio comunale si sia fatto il primo passo per l’istituzione di una fondazione, ossia per svincolare finalmente il teatro dalla gestione del Comune e affidarlo a privati che se ne prendano cura, un po’ com’è successo per quasi tutti i maggiori teatri italiani.

 

Da teatrante non posso che gridare un sonoro “evviva”, non tanto perché abbia una fiducia indiscriminata nella gestione privata di un teatro, ma perché la legge sulle fondazioni (per imperfetta che sia) impone un bilancio in attivo, e per avere un bilancio in attivo bisogna produrre spettacoli e far vivere il teatro che si amministra, mentre finora la sala del Vespignani è stata usata un po’ secondo la concezione che le nostre nonne avevano del loro salotto buono: tenuto chiuso, con le poltrone sigillate dal cellophane ed aperto solo ed esclusivamente nelle grandi occasioni.

Che poi, a pensarci bene, le grandi occasioni della nonna non erano poi quasi mai all’altezza del loro nome: una visita del curato per la benedizione delle case, la lontana parente in visita per le feste, il compleanno dello zio di molto riguardo…insomma seratine piuttosto desolanti, un po’ come gli spettacoli che il nostro teatro, malgrado la grancassa mediatica battuta comunque in colpevole sordina che li definiva “appuntamenti da non perdere”, ha avuto la ventura di ospitare da qualche anno a questa parte.

Ho usato volutamente il termine “ospitare” perché il nostro teatro, con l’eccezione del mio “Barbiere” no-cost, non produce uno spettacolo ormai da tempo immemorabile, e un teatro che non produce ma si limita ad ospitare “anteprime nazionali” (un termine piuttosto elegante con cui vengono chiamate le prove generali aperte al pubblico) concepite, prodotte e montate altrove è un teatro morto.

Lo ripeto: il teatro dell’Unione è un teatro morto, ed è arrivato il momento di riportarlo in vita.

Far vivere il teatro quotidianamente significa anche, per inciso, rendersi conto giorno dopo giorno delle sue carenze strutturali, un po’ come accade in una casa che sia vissuta tutto l’anno: sappiamo tutti che se una casa resta chiusa per troppo tempo topi e scarafaggi la fanno da padrone, i tarli banchettano, le tubature scoppiano.

La stessa cosa succede ad un teatro.

Piccoli lavori quotidiani di ordinaria manutenzione risparmieranno ingenti lavori di manutenzione straordinaria e consistenti lavori di restauro, mentre la storia recente di una sala lasciata per troppo tempo abbandonata a sé stessa ci racconta di reiterati quanto inutili interventi straordinari tesi a salvare il salvabile nell’attesa del prossimo, ineluttabile, intervento straordinario.

Una fondazione ben amministrata (in cui per legge, è bene ricordarlo, deve essere presente anche il Comune) potrà accedere a fondi pubblici e privati, organizzare una stagione lirica degna di questo nome, produrre spettacoli di prosa e musica e balletto e forse, chissà, magari anche fondare una compagnia stabile che, finalmente, possa valorizzare le molte realtà locali che già lavorano in ambito teatrale e che, oggi, portano altrove il loro talento a causa della latenza culturale della nostra città e dell’inerzia in cui il teatro dell’Unione è costretto da ormai troppo tempo a vegetare.

Perché la nostra terra è anche terra di scenografi, compositori, musicisti, cantanti lirici, attori, registi, macchinisti, sarte, costumisti, e tutti restiamo in attesa, speranzosi, che qualcosa finalmente cambi e che i Viterbesi e chi li amministra capiscano che una città come la nostra, che trasuda cultura da ogni pietra, ha l’imperativo categorico di fare della cultura la propria carta vincente.

Mi fa piacere pensare che Giulio Marini, il quale non si è opposto all’idea della fondazione, anzi pare caldeggiarla, sia uno che l’ha capito.

Alfonso Antoniozzi

19 ottobre, 2009 - 16.01