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Primarie Pd -L'intervento di Ignazio Marino, dopo il corsivo di Severo Bruno

“Un Paese che non fa ricerca svende il proprio futuro”

<p>Ignazio Marino</p>

Ignazio Marino

Riceviamo e pubblichiamo l’intervento di Ignazio Marino, candidato alle elezioni per la segreteria nazionale del Pd, che risponde all’appello lanciato su Tusciaweb dall’avvocato Severo Bruno – Un paese che non investe sulla ricerca e sui suoi giovani è un paese che svende il proprio futuro. E’ questo l’inevitabile destino a cui andremo fatalmente incontro se non affronteremo subito e con determinazione i problemi che riguardano il settore della ricerca.

Nell’ormai lontano 2000, il Consiglio europeo riunito a Lisbona fissava gli obiettivi strategici per l’Unione Europea al fine di sostenere l’occupazione, le riforme economiche e la coesione sociale nel contesto di un’economia basata sulla conoscenza. L’obiettivo era di aumentare il grado di competitività della Ue a livello mondiale puntando a investire il 3% del Pil di ogni paese aderente in ricerca e sviluppo.

Oggi, i paesi dell’Ue nel loro complesso investono in ricerca circa il l’1,93% del Pil contro il 2,69% degli Stati Uniti, il 3,12% del Giappone. L’Italia si attesta su un misero 0,9% e con l’ultima legge finanziaria del governo Berlusconi i finanziamenti sono arrivati al minimo storico.

Le differenze si riscontrano anche nel numero dei ricercatori che nel Vecchio Continente è di 5,3 ogni mille lavoratori rispetto ai 9 degli Stati Uniti e addirittura ai 10 del Giappone. In Italia i numeri sono drammaticamente più bassi: circa 2,8 ricercatori su mille lavoratori.

Un dato positivo tuttavia va sottolineato ed è che la ricerca italiana risulta di alta qualità e ha un impatto riconosciuto a livello internazionale. Nonostante questo, i nostri ricercatori incontrano evidenti e scoraggianti difficoltà nel condurre i propri studi. Uno dei principali problemi, come abbiamo accennato, è legato ai finanziamenti che dovrebbero essere per lo meno raddoppiati ma anche veicolati in modo mirato verso i settori innovativi come quello delle bio-scienze.

Ci sono poi le questioni legate alle prospettive di carriera dei ricercatori: l’età media dei nostri docenti universitari è di 57 anni, venti anni fa era di 38 anni. Il 70% ha più di 50 anni mentre i giovani di trenta, un’età nella quale la creatività è indubbiamente superiore, non riescono ad accedere nemmeno agli assegni di ricerca. Questo dato spiega in parte il limitato numero di brevetti italiani e la scarsità di progetti che si trasformano in attività produttive.

Solo raramente la conoscenza viene convogliata verso processi produttivi mentre sarebbe necessario insistere sull’importanza di brevettare le scoperte e prevedere, all’interno di tutti gli atenei, degli uffici addetti al trasferimento tecnologico che sappiano coniugare le conoscenze scientifiche con quelle legali, tutelare la proprietà intellettuale della scoperta e supportare i ricercatori nel processo di brevettazione o nella creazione di start up. Questo tipo di supporto, praticamente assente nelle nostre strutture di ricerca, permetterebbe, come avviene in molti altri paesi, l’accesso a finanziamenti provenienti anche da privati e sarebbero fonte di introiti attraverso i diritti o la cessione di quote azionarie.

La realizzazione di nuove attività imprenditoriali creerebbe ulteriori opportunità di lavoro e potrebbe contribuire a frenare l’emigrazione dei cervelli italiani. Si produrrebbe così un circolo virtuoso da cui trarrebbe beneficio l’intero sistema ricerca e l’economia del paese.

Va ricordato poi il problema della fuga dei ricercatori, un fenomeno non quantificabile con esattezza ma che riguarda migliaia di giovani che ogni anno lasciano l’Italia alla volta di Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia ed altre nazioni in cerca di opportunità di lavoro e di crescita, mettendo a disposizione di altri le proprie conoscenze e idee, dopo lunghi anni di formazione totalmente a carico del nostro sistema scolastico.

Un rapporto del Censis riferisce che il 60% dei ricercatori residenti all’estero ha lasciato l’Italia a causa delle scarse risorse che avevano a disposizione per le attività di ricerca, delle condizioni economiche migliori all’estero, delle prospettive di un più rapido sviluppo di carriera. A queste ragioni si aggiungono i motivi per non tornare che vanno dall’eccessiva burocratizzazione, alla carenza di tecnologie e laboratori, dalla chiusura del mondo universitario che si esplicita in posti di lavoro non adeguati e precari.

Ma, sicuramente, l’aspetto più rilevante che tutti i ricercatori italiani all’estero vorrebbero comunicare, è il timore di ritornare in un sistema che non considera il merito come valore principale ma che, al contrario, offre promozioni e opportunità, oltre che finanziamenti, sulla base di meccanismi non trasparenti e non misurabili.

Non siamo di fronte ad una fisiologica mobilità scientifica ma, come dicevamo, alla svendita del nostro futuro collegata al blocco delle assunzioni, al progressivo taglio dei finanziamenti e delle strutture, alla carenza di strategie, per finire con l’assenza di criteri meritocratici nella valutazione dei progetti e delle capacità di ognuno.

La situazione è molto grave e il ministro Gelmini pare non rendersene conto. Annuncia di cambiare le cose ma, per fare un esempio, su un bando di concorso che assegna fondi a ricercatori con meno di 40 anni, non è nemmeno riuscita a rispettare i termini e le scadenze previste dal bando per cui i fondi andranno probabilmente perduti per quest’anno. Bel risultato!

Un passo andrebbe davvero fatto subito adottando per l’assegnazione dei fondi a disposizione del ministero della ricerca il sistema della “peer review”, adottato in tutto il mondo e basato sul giudizio tra pari, ovvero affidando la selezione ad esperti internazionali della materia ed escludendo dai criteri di valutazione l’appartenenza a gruppi di potere, ai baroni, alla burocrazia ministeriale.

Le preoccupazioni che esprimo sono riconosciute e condivise a livello internazionale tanto che anche l’autorevole rivista scientifica Nature ha in più occasioni sentito la necessità di descrivere la situazione italiana sottolineando che i nostri problemi riguardano l’eccessivo peso della burocrazia, un’irragionevole aspettativa di ritorno immediato sugli investimenti, i finanziamenti troppo esigui oltre che la quasi assenza di criteri meritocratici.

Per invertire questa tendenza sarebbe necessario ringiovanire le nostre università così come ripensare le carriere professionali, i salari, ma anche le responsabilità e i doveri dei ricercatori di maggior talento puntando sulla trasparenza e sulla meritocrazia. Nello stabilire i criteri di giudizio è quanto mai importante la scelta dei valutatori, che debbono essere reclutati in base alla loro competenza e anche al loro valore etico. Importante l’inserimento, tra questi, di scienziati stranieri che godano di prestigio nel settore in esame e non abbiano rapporti di lavoro con i proponenti.

Se riusciremo a stabilire delle nuove norme per una rigorosa valutazione dei progetti nell’assegnare un adeguato finanziamento, potremo sperare in un salto di qualità necessario per raggiungere il livello per competere con altri paesi nei quali la ricerca è sottoposta a imparziali processi di controllo e valutazione. L’uno e l’altro, sono purtroppo ancora oggi carenti nello scenario scientifico e tecnologico della ricerca italiana.

Ma non sono problemi secondari perché dalle loro soluzioni dipende il futuro dei nostri giovani migliori e lo sviluppo del nostro paese.

Ignazio Marino
Senatore, candidato alla segretaria nazionale del Partito Democratico

18 ottobre, 2009 - 18.46

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