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L'alambicco di Antoniozzi

Chi è vittima di stupro è sempre vittima

di Alfonso Antoniozzi
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Avevo una professoressa, pace all’anima sua, che anni fa sentenziò in maniera piuttosto chiara (malgrado un certo suo linguaggio contorto per cui andava famosa e grazie al quale sarà immediatamente riconoscibile a chi l’abbia frequentata) che “le regazzine vanno ‘ngiro co’ la minigonna e poi non se devono lamenta’ se i maschi le strupeno”.

Ecco, in questa frase si riassume quello che malauguratamente pare essere un pensiero se non comune, almeno dominante: una donna che faccia l’errore di andare in giro ostentando la propria femminilità invece di nasconderla, come minimo è una poco di buono, come massimo è una puttana, e in entrambi i casi il maschio non ha poi tutti i torti se, solleticato nel testosterone, dimentica ogni brandello di civiltà e convivenza civile e le si butta addosso manco fossimo nel’età della pietra.

Posso benissimo comprendere (il che non significa, per inciso, giustificare) che in una società che usa corpi femminili anche per vendere candele per le auto, che per smerciare copie dei settimanali schiaffa tette in copertina una settimana sì e l’altra pure, che pare non riesca a metter su un programma televisivo senza sentirsi in dovere di mettere a cornice del sellerone di turno svariate prosperose signorine che avranno anche cervello ma certo non è su quello che la telecamera si sofferma, risulti poi piuttosto difficoltoso far passare il concetto che segue: la donna non è un oggetto sessuale il cui fine ultimo consiste nel soddisfare i desideri dell’uomo.

Nonostante questo, appare quantomeno paradossale sentir dire da cittadini del duemilanove che uno stupro di gruppo sia una ragazzata e che, in fondo, se una va in giro con le gambe di fuori è quantomeno logico che le saltino addosso. Ancor più paradossale, quando capita che a difesa del branco si ergono altre donne.

Sì, perché in molti casi è proprio dalla bocca di altre donne che si sente dire “beh, però in fondo se l’è andata a cercare”, frasetta a doppio senso che sta a significare con un colpo solo che la disgraziata che ha subito lo stupro in fondo era una che provocava, e che chi dice la frase in questione sia a prova di violenza carnale e conduca una vita di morigerata e inoppugnabile virtù. Che tristezza, soprattutto quando pareva che dal naufragio del movimento femminista si fosse salvato se non altro un briciolo di solidarietà tra donne.

Sarà bene allora ricordare che lo stupro, diventato grazie al cielo un reato contro la persona e non contro la morale, è forse il reato più abietto di cui ci si possa macchiare senza spargere sangue: ferisce la persona che lo riceve nel profondo, mina alla radice qualsiasi tipo di fiducia nell’altro sesso, compromette seriamente qualsiasi tipo di relazione sentimentale futura. In altre parole, lo stupro assassina psicologicamente né più né meno quanto un omicidio possa uccidere fisicamente.

Basterebbe dare un’occhiata al monologo che Franca Rame, coraggiosamente, mise in scena per raccontare lo stupro di cui fu vittima, oppure dare una scorsa ad alcuni testi raccolti nella piéce “I monologhi della vagina” per rendersi conto di come e quanto la vittima di una violenza carnale resti vittima anche per molto tempo dopo che la violenza in oggetto si è conclusa.

Sia detto allora una volta per sempre: chi è vittima di uno stupro è sempre vittima, anche se per mestiere si prostituisse. Lo stupratore è sempre carnefice, anche se l’altra persona avesse deciso di andare a letto con lui e, un’istante prima che l’atto si consumi, decidesse di cambiare idea.

E chi la pensa diversamente non è degno di esser chiamato persona civile.

Alfonso Antoniozzi

10 novembre, 2009 - 15.15