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Il ritorno del fattore k e la nuova area cattolica

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Se c’è qualcosa di nuovo in queste recenti elezioni, si intende dal punto di vista degli sconfitti, è che l’esito – imprevisto nelle sue dimensioni – ha portato alla luce una condizione interna che era rimasta finora latente.

Non voglio qui riferirmi a discorsi di responsabilità politica o individuale, pure evidenti agli occhi di ogni osservatore esterno, che saranno oggetto di analisi e riflessione all’interno dei partiti delle due coalizioni di centrosinistra che insieme hanno governato Regione e Provincia, quanto invece al rafforzamento di una dinamica di flusso elettorale che non era stata mai sufficientemente considerata prima d’ora.

E’ probabile che una tale dinamica sia presente su tutto il territorio nazionale ma, per semplicità di ragionamento e per quel che ci importa maggiormente, mi soffermerò soltanto sull’esame di quel che è accaduto nella Tuscia.

Partendo dal caso di Emma Bonino.

Credo che nessuno possa negare che fino al 27 marzo una delle frasi ripetute con una certa supponenza, anche se privatamente, sulle nostre labbra sia stata quella del piacere di vincere facile, mutuata dallo slogan pubblicitario delle scommesse e dei giochi del Monopolio.

La convinzione diffusa nella mente dei vari candidati, forse segretamente anche in seno al Pdl, era che la Regione Lazio, un po’ per ultime responsabilità romane, un po’ per merito e qualità delle contendenti, rimanesse saldamente in mano a chi l’aveva governata negli ultimi cinque anni.

Nel caso della Provincia di Viterbo invece la falsa partenza determinata dalle liti interne al Pd e dalla messa in sicurezza del presidente Mazzoli tra le dolci brezze del Ponentino avevano dapprima fatto pensare ad un risultato negativo, pian piano trasformatosi in una letterale nuova speranza dall’immagine accattivante ed efficace dell’altrettanto giovane Grattarola.

Un effetto combinato di questi due elementi con la notizia, mai confermata da nessuno e per questo più attraente e verosimile, del vantaggio annunciato da sondaggi commissionati da potenti notabili, aveva fatto il resto.

Domenica 28 e lunedì 29 marzo gli elettori viterbesi, anche se in numero inferiore alle attese di tutti i partiti, si sono invece recati alle urne e vi hanno deposto un responso che non lascia dubbi.

Di fronte alla sconfitta sono stati in molti quelli che si sono affrettati ad individuare nelle indicazioni di vescovi e Vaticano il motivo di un esito inaspettato e poco gradito; molti di meno quelli che hanno cercato di comprendere le ragioni di chi vota.

Dato per assodato che i punti a favore del centrosinistra nella campagna elettorale sembravano maggiori di possibili errori e debolezze che potevano essere anche classificate come fisiologici e inevitabili, cosa è allora andato storto?

C’è da giurare che questa affermazione susciterà polemiche e forse riprovazione internamente ai partiti di un’area che sempre più va ritornando a connotarsi come di sinistra meglio ancora che di centrosinistra, ma il punto è che nessuno di questi partiti ha realmente e volutamente inteso rompere con il passato.

Non lo può fare il pur valente Bersani, che affonda le radici della sua autorità nel potente sistema di fondazioni che ha messo in rete i patrimoni immobiliari, finanziari, associativi, che hanno fiancheggiato la storia politica della filiera Pci-Pds-Ds.

Non lo ha fatto Veltroni, che ha finito per prendere atto che una buona parte del popolo democratico non è riuscito a staccarsi da una simbologia, sicuramente carica di memorie e di affetti ma anche legata a ormai accertati sbagli della storia, che ancora tappezza le pareti delle sezioni Pd in ogni parte d’Italia.

Non lo ha saputo fare Rutelli, destinato dall’impazienza e dai numeri ad un ruolo troppo marginale per riuscire a mollare le zavorre che ancorano la politica riformista ad un passato ingombrante.

E non lo hanno finora voluto fare personaggi come Marini, Franceschini, Fioroni ma neanche Prodi, che, pur con motivazioni diverse, hanno trovato una comoda ragion d’essere nelle collocazioni importanti che sono in ogni caso garantite dalle percentuali rassicuranti fornite dalla tradizione.

Fallito il progetto di cambiare la politica e superare le divisioni di un secolo breve e intenso come il ‘900 quello che rimane è solo il ritorno ad una forma di contrasto ideologico, aggiornato ai tempi nuovi che hanno sostituito la guerra fredda con lo scontro di civiltà, ma pur sempre caratterizzato dalle scelte di campo e dalla fede in pezzi di stoffa che gli uomini di tutte le epoche chiamano bandiere.

In questo ritrovato contesto, ben conosciuto dagli italiani, un nuovo fattore K – stavolta non eterodiretto ma determinato dalla forza dei numeri di una democrazia talvolta bizzarra ma tenace, rischia di tenere lontano dalla guida di municipi, province, regioni e governo nazionale la componente del cattolicesimo democratico che dai tempi di Martinazzoli e della diaspora democristiana, memore del detto degasperiano che la Dc era un partito di centro che guardava a sinistra, ha scelto di stare dalla parte opposta del Cavaliere e del centrodestra.

E’ un fattore K depotenziato, annacquato appena dal fatto che di tanto in tanto qualche errore tattico degli avversari determina una momentanea debacle che col passare del tempo diventa tuttavia sempre più occasionale.

In presenza di questa esclusione de facto ed in mancanza di una vera presa di coscienza da parte del Partito democratico che la condizione per la sua sopravvivenza è l’avvio di una fase ri-costituente che grazie all’esperienza di tre anni sia più matura e si bruci definitivamente i ponti alle spalle, si prospettano soltanto due possibilità: accettare con rassegnazione il fatto di essere estromessi dalla conduzione della polis e rinunciare all’apporto della cultura riformista moderata di matrice cattolica, oppure rielaborare nuove aggregazioni di stampo civico sul modello della Lega, che non a caso riscuote ovunque successi imprevedibili solo fino a poco tempo fa.

Questo in estrema sintesi è lo scenario che appare prospettarsi soprattutto nella nostra provincia nei prossimi anni, visto che soltanto lo scomponimento e la successiva ricomposizione dei poli in forma diversa da quella attuale può rimettere in gioco un esito altrimenti scontato di nuove elezioni che non si terranno più a Viterbo prima del 2013.

Angelo Allegrini
Segretario provinciale Pd