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Ingrao, un vecchio testardo di 95 anni

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Domani, 30 marzo, Pietro Ingrao compie 95 anni. Per chi ha seguito un percorso come il mio, la figura di questo vecchio e testardo comunista è stata un riferimento fondamentale, una vera fonte di ispirazione politica.

Nasceva mentre c’era la prima guerra mondiale e crebbe mentre c’era il fascismo. Poi venne la guerra, la clandestinità antifascista (la “cospirazione”, come ama definirla…), la liberazione dal nazifascismo e la sua lunga carriera di giornalista, dirigente politico, uomo delle istituzioni, fino a quando divenne presidente della Camera dei Deputati.

Nel 1966 l’XI congresso del Pci, con lo scontro tra la “destra” di Giorgio Amendola e la “sinistra” di Pietro Ingrao, segnò il passaggio ad un nuovo confronto politico, ancora sotto l’ombrello del centralismo democratico come modello organizzativo, ma aperto ad una evoluzione dialettica che porterà il partito verso l’apice elettorale raggiunto un decennio dopo con il 34% dei voti.

Una tale forza nel campo occidentale i comunisti italiani poterono ottenerla per l’anomalia di fondo (o la “doppiezza”) di un partito che guardava all’Urss, ma sapeva essere di ispirazione nazionale e democratica, capace di esercitare una egemonia forte nel mondo della cultura sostenendone slanci e aperture.
Se ciò fu possibile, a mio parere, è senza dubbio dovuto anche all’eresia ingraiana (che porterà, nella sua più forte “interpretazione”, alla radiazione dal partito, nel 1968, dei giovani dirigenti che fondarono Il manifesto).

Non va dimenticato che egli fu studente del centro sperimentale di cinematografia e se l’urgenza della politica degli anni ’40 lo costrinse ad abbandonare il suo amore per il cinema, rimase comunque in lui il senso della ricerca di linguaggi nuovi e inesplorati, che fu in politica la ricerca delle “nuove soggettività” che si andavano affiancando al movimento operaio.

Ingrao ha sempre disconosciuto gli “ingraiani”, non ha mai voluto essere il capo di una fazione, eppure intere generazioni di comunisti italiani si sono formate sulle sue idee e, persino, sul suo linguaggio venato di accenti poetici. In questo senso credo di poter dire che il suo vero erede sulla scena politica odierna sia Nichi Vendola, il cui slogan elettorale alla riconquista della regione Puglia è stato “la poesia è nei fatti”.

La bella autobiografia di Ingrao intitolata “Volevo la luna” è il ricordo di quel che egli diceva da bambino a suo padre, ma è anche l’accento di un secolo che ha vissuto enormi tragedie e grandi slanci ideali, capaci realisticamente di rasentare l’utopia, un secolo trascorso però spegnendosi dentro passioni tanto fredde per quanto spettacolarizzate.

Nel viso di questo novantacinquenne vedo la politica fatta di sacrificio e disciplina, la solidarietà tra le persone e la coerenza dei principi. Non c’è bisogno di miti, ma di memoria, di buona memoria sì.

Ingrao è la testimonianza vivente di una parte bella e importante della storia civile del nostro Paese.

Valerio De Nardo