Invia questo articolo Stampa questo articolo
Condividi: Queste icone linkano i siti di social bookmarking sui quali i lettori possono condividere e trovare nuove pagine web.
  • Webnews
  • Digg
  • del.icio.us
  • Facebook
  • Google Bookmarks
  • LinkedIn
  • Live-MSN
  • MySpace
  • OKnotizie
  • Technorati
  • YahooMyWeb
  • TwitThis
L'opinione di Mattioli

Un due tre e… la sinistra non c’è più

di Francesco Mattioli
<p>Francesco Mattioli</p>

Francesco Mattioli

- Non sarò breve, e spero solo che i quattro gatti, che avranno la pazienza di leggermi fino in fondo, vorranno riflettere con me a prescindere dalle proprie legittime convinzioni.

Qualche mese fa, su questo stesso giornale, ebbi a illustrare i motivi per cui in Italia è pressochéimpossibile realizzare il bipolarismo politico; ragioni storiche, culturali, ambientali che non ci fanno assomigliare ad un paese britannico, dove il bipolarismo è nato.

E’ proseguendo in questa prospettiva che mi viene da meditare sull’attuale situazione politica italiana, dove né la destra né la sinistra appaiono omogenee e devono persino guardarsi da un centro che affascina sempre più l’elettorato moderato, quello che vive in un mondo di incertezze e contraddizioni, ed è disposto a condividere soltanto sogni e utopie a basso costo.

La destra ha problemi di identità, solo in minima parte legati alla crisi personale di un uomo. Ma ciò che fa più impressione, oggi, è la crisi dellasinistra, che appare del tutto incapace di approfittare della temporanea debolezza dell’avversario e lascia che l’opposizione più seria e credibile la faccia proprio il centro.

La sinistra non è unita e non è neppure “unibile”, se non per “fare fronte”, che è un modo poco produttivo di fare politica senza avere idee progettuali precise, giacché l’alleanza è ipotizzata quasi esclusivamente “contro” e non “per”. Ora, se nel 1945 o nel 1962 coalizzarsi “contro” aveva un senso, nel XXI secolo in Italia non paga: lo dicono gli esiti elettorali e i sondaggi d’ogni colore.

E’ in crisi soprattutto quella sinistra che si rifà al marxismo nelle sue linee più ortodosse.

Gli anni settanta del “sorpasso alla Dc” sono lontani, ma perfino allora quell’esperienza non fu apprezzata, tanto che a sinistra del Pci nacquero partiti irriducibili e nell’extraparlamentarismo prese vigore la lotta armata.

Il fatto è che troppa sinistra sa stare solo all’opposizione e manca tuttora di una cultura di governo nazionale (non conta la cultura di governo delle amministrazioni locali, che è altro). I motivi di tutto ciò sono molteplici, ma alcuni sono stati analizzati con acume da vari studiosi in questi ultimi decenni.

Daniel Bell, Edgar Morin, Ralph Dahrendorf, François Lyotard, Francis Fukuyama, Anthony Giddens: una bella nidiata di grandi maitres a penser della società contemporanea, accomunati da una costatazione, che la seconda metà del Novecento ha visto la fine delle ideologie. E per indicare l’esempio più eclatante indicano il crollo dell’Unione Sovietica e del comunismo e la penetrazione del capitalismo in Cina e persino a Cuba.

Beninteso: nel crollo del comunismo lo sviluppo del capitalismo entra solo in parte, visto che anche il capitalismo oggi è in crisi, almeno nelle sue forme tradizionali.

E non si tratta neppure del crollo del marxismo come analisi scientifica dell’economia, tant’è che oggi sono numerosi gli studiosi che sono marxiani (cioè che condividono certe analisi di Marx sull’economia occidentale) senza essere marxisti (cioè senza condividerne la proposta politica).

La crisi del comunismo non è nuova; una “prima volta” si ebbe già all’inizio del ‘900 (in Italia nel 1922), quando, di fronte ad un progresso che stava rapidamente cambiando gli scenari politici dell’occidente, una parte consistente dei lavoratori disse no alla rivoluzione e scelse la via parlamentare.

La seconda si deve forse alla globalizzazione che, diversamente da quanto temevano i “no global” e i teorici della dipendenza alla Gunder Frank, non sta consegnando il pianeta nelle mani del capitalismo e segnatamente in quelle dello Zio Sam, ma ha creato poli economici e sociopolitici alternativi in grado di mettere in crisi proprio il capitalismo tradizionale (si pensi al cosiddetto Bric, composto da economie forti, ma non appartenenti al tradizionale schieramento capitalista occidentale, come Brasile, Russia, India e Cina).

Così, l’idea comunista della rivoluzione planetaria anticapitalista e antiglobalizzazione trova scarsi adepti; persino i no-global stanno perdendo pezzi e vengono sostituiti dai black-bocks, che sono altra cosa e tutt’altro che edificante.

A meno che non si voglia creare una improbabile liaision tra il comunismo e il fondamentalismo islamico, l’altro grande nemico del capitalismo, ma per ragioni pressoché opposte. Ed évero che il nemico del mio nemico è mio amico, e che in guerra tutto è permesso, ma c’è un limite a tutto…

Tutto questo per dire che al presente chi ancora brandisce la bandiera con la falce e martello si trova a fare i conti con un mondo profondamente mutato. Come mi faceva notare già una ventina di anni fa Alain Touraine (sociologo marxista, massimo interprete del “sessantotto”), sia la falce (agricoltura) che il martello (industria) sono ormai largamente minoritarie rispetto all’importanza economica del terziario, che per sua natura è piuttosto “borghese” e comunque profondamente eterogeneo, difficile da interpretare, penetrare e mobilitare.

Persino in fabbrica la filosofia del ceto medio sta erodendo la cultura operaia più tradizionale; questo è forse meno evidente in Italia, ma è ormai largamente acquisito nella maggior parte dei paesi occidentali.

Anni fa, da giovane sociologo, durante un pubblico incontro chiesi a Luigi Petroselli se non pensava che il Pci al 35% dovesse fare i conti anche con la logica borghese di quella classe media che l’aveva votato per la prima volta. Non mi rispose, o meglio negò che il Pci dovesse cambiare linea per questo; in realtà temo che non abbia “voluto” capire la domanda.

In ogni caso, l’andamento elettorale nelle democrazie europee, negli ultimi vent’anni, sta penalizzando progressivamente l’estrema sinistra, segno che i messaggi di quest’ultima stanno risultando sempre meno familiari ai lavoratori, che preferiscono creare nuove e diverse forme di confronto politico e sindacale.

Persino il movimento degli studenti comincia a prendere le distanze dalle forme più stereotipate dell’espressività comunista.

I recenti episodi di resistenza della Fiom nei confronti della riforma Marchionne alla Fiat se appaiono sacrosanti nella logica del sindacalismo più tradizionale, quello anni ’60, risultano del tutto disallineati con quella che è la tendenza globale in atto, che inevitabilmente sposta la produzione (di qualsiasi genere) nelle aree economiche più favorevoli.

A meno di statalizzare le industrie (soluzione bocciata dalla storia già nel XX secolo, ma che sotto sotto è ancora il sogno inconfessato di molti marxisti), non si può impedire ad una azienda di perseguire i suoi obiettivi economici di sopravvivenza in un mercato internazionale altamente competitivo, che non ammette debolezze di sorta.

Così, la soluzione prospettata dalla Fiat e accettata dagli altri sindacati, ancorché forse meno favorevole politicamente ai lavoratori italiani rispetto al passato (ma migliore di quella valida per i lavoratori della Chrysler), sembra essere perfettamente in linea con quanto avviene in tutta l’industria automobilistica che conta.

Allora, fare resistenza nei suoi confronti significa tirare la corda oltre la sua più ragionevole resistenza e rischiare di porsi fuori della storia e della realtà economica globale. Ha ragione la Camusso a sostenere che la riforma di Marchionne “non appartiene alla cultura sindacale di questo Paese”, ma il problema è che il modello sindacale della Fiom non appartiene più alla cultura sindacale del pianeta.

La vicenda del no di Lula all’estradizione di Battisti è un’altra situazione che non può che imbarazzare i marxisti di tutto il mondo.

Il marxista Lula considera il pluriomicida Battisti un eroe della resistenza al capitalismo italiano? Considera l’Italia un paese tanto incivile da temere che un ergastolano possa essere fatto fuori come in una qualsiasi repubblica delle banane sudamericana?

E come mai il marxista Lula accetta di buon grado che la capitalista Fiat dell’infingardo Marchionne costruisca auto e motori nel suo Paese a danno dei lavoratori italiani? Dov’è finita l’unione dei proletari di tutto il mondo?

Il malessere della sinistra si trova ad ogni angolo della strada politica del nostro Paese. Basta vedere quali problemi stiano sorgendo nel Pd tra ex comunisti che guardano da un parte ed ex democristiani che guardano dalla parte opposta, quando si parla di alleanze e di problemi etici.

Il che, piuttosto che di ricongiungimenti, sembra foriero di ulteriori divisioni. Un collega albanese mi ha fatto notare maliziosamente che il Pd assomiglia alla bandiera del suo Paese: un’aquila a due teste, volte in direzioni opposte. Nella Tuscia mi sembra che si sia toccato il fondo, o quasi, disorientando quel numero di elettori, sempre più modesto, che ancora vota e vorrebbe votare per il centrosinistra.

Sono contraddizioni che attraversano il marxismo, la sinistra, il comunismo, che non sembrano in grado di sintonizzarsi sulla scena politica del XXI secolo. Ma attenzione: sono contraddizioni che attraversano parimenti il capitalismo, che creano incertezza in un società, la nostra, sottoposta a grandi cambiamenti che non risparmiano niente e nessuno. Né gli ambientalisti, che ieri chiedevano l’energia pulita del vento e del fotovoltaico e oggi si accorgono che il paesaggio rischia di essere stravolto da questi impianti; né le chiese, dilaniate tra conservatorismo e cambiamento, tra morale ufficiale e pratica reale; né le scienze, che oltre a perdere le certezze del determinismo naturalistico, sono accusate di scegliere secondo interessi economici piuttosto che scientifici.

Sembrano entrare in crisi persino quelli che una volta pensavamo che fossero i “valori non negoziabili”, quelli della liberté, egalité, fraternité,della stessa democrazia e della dignità dell’Uomo, che il multiculturalismo comincia a mettere in dubbio.

Qualche tempo fa ho chiesto ai miei studenti di rispondere ad un quesito: “la democrazia, che difende la libertà di pensiero e l’uguaglianza, deve difendere anche quelle minoranze che affossano la libertà e l’uguaglianza?”

Non mi hanno saputo rispondere con chiarezza; non avevo qualcosa da suggerire loro, visto che né gli aforismi di Voltaire e neppure certi teorici del multiculturalismo come Rawls sono in grado di dipanare il dubbio.

Allora, può sorprendere che la sinistra italiana stenti a trovare la strada, la casa comune? Che il centro stenti a compattare cento monadi diverse? Che il centrodestra perda i pezzi di qua e di là, perché non riesce più a dare un definizione non residuale di “destra”? Certo, l’unica ad apparir solida sembra essere la Lega, ma non è un caso che dietro la Lega non ci sia un’ideologia, ma una miriade di interessi del qui e ora, una politica da barbecue dove l’orizzonte del mondo finisce alla staccionata ben dipinta di bianco. Il che forse può andar bene per amministrare Cinisello Balsamo, ma non un Paese calato in una realtà globale e multiculturale.

Resta il fatto che, oggi, a subire maggiormente la trasformazione del mondo globale, sia proprio il marxismo ortodosso, e segnatamente la sinistra estrema: che fa battaglie quanto meno di retroguardia in occidente, che non riesce a prendere le distanze, in strada, dall’anarchismo nichilista (i famosi “compagni che sbagliano”) e che alimenta alcune delle peggiori dittature del XXI secolo, dalla Bielorussia alla Corea del Nord, dalla Birmania alla Cina, dove non esiste libertà di pensiero, di religione, di associazione, di cultura.

Rischiando così di mettersi a braccetto persino con la dittatura clericale dell’Iran, tanto per fare dispetto al capitalismo occidentale, vedi ad esempio l’atteggiamento dell’ineffabile Lula nei confronti di Teheran…

Giorgio Napolitano, che ha una storia personale molto chiara, ha affermato l’altro giorno che l’epoca dello scontro ideologico è finita. Devono aver fischiato le orecchie a molti marxisti, ancora annidati nel loro fortino di lotta dura senza paura.

Beninteso: l’Italia vive un momento critico, dove l’occupazione sprofonda, i giovani stanno perdendo motivazioni, la cultura e la scienza sono progressivamente mortificate e i valori etici sono sotto attacco.

Ma davvero qualcuno pensa che oggi la soluzione stia in una società socialista? Che si possano risolvere i nostri problemi ignorando tranquillamente quel che avviene nel resto del mondo? Che con un po’ di giustizialismo manicheo si possa ripulire la scena?

E’ un peccato che non si avverta una reale maturazione, una capacità di restare nella storia di oggi da parte di certa sinistra, che pure è stata, nel XX secolo, forse l’unica vera depositaria del progressismo, della democrazia reale, dell’idea di sviluppo sostenibile e di moralizzazione della vita politica e amministrativa.

Restare nella storia, che cosa può significare? Intanto, ripudiare tutti gli -ismi, che come tali sono segnali di forzature e di estremizzazione delle posizioni in un mondo globale troppo variegato per sopportare ipersemplificazioni ideologiche; poi praticare la cultura del rispetto reciproco; ma soprattutto, credere in una politica che sia assunzione di responsabilità, servizio, che abbia a fondamento una vera ”etica” comune.

E’ questa l’utopia positiva che può essere praticata e che diventa l’obiettivo e la sfida dell’immediato futuro: senza farsi ingannare da un anticonformismo di maniera, ma con l’impegno serio verso una realtà sociale complessa e difficile da interpretare, che non finisce ai confini del nostro orticello, che non ammette fondamentalismi di sorta, e che impone il dialogo, nessuno escluso.

Francesco Mattioli

27 gennaio, 2011 - 17.18