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L'alambicco di Antoniozzi

Basta con l’embeismo

di Alfonso Antoniozzi
<p>Alfonso Antoniozzi</p>

Alfonso Antoniozzi

- Molti sono convinti che esista un progetto chiaro che tenderebbe a istupidire gli italiani e che proprio per questo, da tempo, l’obiettivo finale sarebbe quello di azzerare qualsiasi attività culturale, sia essa sotto forma di musica, teatro, cinema, danza, letteratura: si dice che si vorrebbe che gli italiani non pensassero.

Io non lo credo. O meglio, non credo che ci sia nessuno che voglia, con fredda determinazione e lucida capacità di attuazione, realizzare un progetto del genere.

Sono invece convinto che sia cambiata, questo sì, la disposizione d’animo nei confronti della cultura, del sapere, della conoscenza e del cammino che essi necessariamente portano con sé.

Laddove un tempo eravamo educati nella vergogna della nostra ignoranza, negli anni che ci tocca vivere questa viene difesa come un diritto inalienabile.

Siamo passati da “non lo so, sarà meglio che taccia e mi informi” al motto che sembra caratterizzare la società contemporanea: “non lo so, embè?”

Ricordo che, negli anni della mia adolescenza, quando capitava di incontrare qualcuno che facesse una citazione di un luogo, di un libro, di uno spettacolo o di un film, o ci parlasse di qualcosa che davvero non conoscevamo, la prima cosa che si faceva una volta tornati a casa era ricercare quel qualcosa, informarci, leggere quel libro, vedere quel film, farci raccontare di quello spettacolo.

Ed erano tempi in cui la ricerca non era, come oggi, alla portata di un click del mouse.

E’ paradossale: oggi che qualsiasi informazione potrebbe entrarti in casa in tempo reale, c’è in giro così poca curiosità. Colpa, ne sono personalmente convinto, del sempre più diffuso atteggiamento “embeista” (da “embè” ).

Ovviamente, da un atteggiamento del genere non può che scaturire un’indifferenza generale nei confronti della cultura, fino ad arrivare all’ormai celebre e largamente condivisa frase “con la cultura non si mangia”.

Ed è vero. Ma la cultura, quella senza la “K” davanti di fantozziana memoria, ossia quella che apre la mente senza imposizioni, è altrettanto importante del cibo. E’ parte di un cammino che approda, lentamente o velocemente ma in maniera inesorabile, alla ricerca.

Ricercare, come sappiamo, significa anzitutto mettere e mettersi fruttuosamente in discussione, e mettersi fruttuosamente in discussione non è altro che il primo passo verso la strada della verità, una cosetta da niente che tutti ambiscono e che guai a levargliela ma che, diciamoci appunto la verità, in fondo spaventa molto più di quanto non la si desideri.

Negare la cultura, ossia negare cibo alla mente, è altrettanto criminale che negare cibo al corpo. Come il corpo verrebbe presto ridotto, in assenza di cibo, allo stato vegetativo, anche la mente senza cultura (ossia senza ricerca, senza cammino) vegeta.

E, cristallizzata nelle sue poche, rassicuranti conoscenze, fa dire alle labbra: “non lo so, embè?”. Appunto.

La prima cosa da fare, la vera sola rivoluzione possibile, è dunque quella di abbandonare l’embeismo che dorme o veglia in ciascuno di noi e ritornare ad essere curiosi, ossia affamati di cultura, di voglia di crescere.

Del resto, ogni bambino che cresce ti bersaglia di “perché?”. Una domanda che, da adulti, ci vergognamo di porre.

Alfonso Antoniozzi

8 marzo, 2011 - 16.28