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Il nuovo Pd - Lettera aperta a Renzi

Caro Matteo, la tua azione di pungolo può degenerare

di Giuseppe Fioroni

Viterbo - Caro Matteo,

desidero ragionare con te a voce alta. Mi è capitato più volte da ragazzo di trovarmi in assemblee e manifestazioni, specie per la ricorrenza del 25 aprile, nel corso delle quali faceva spicco la recitazione della “Preghiera del Ribelle” di Teresio Olivelli, morto nel 1945 nel lager di Hersbruck. Aveva 29 anni, due anni prima era stato nominato rettore del collegio Ghisleri di Pavia: dopo l’armistizio aveva scelto di stare dalla parte della Resistenza. Medaglia d’oro al valor militare,per lui come per Mazzolari è stata aperta di recente la causa di beatificazione. Ancor prima di scrivere quella stupenda Preghiera, aveva dato vita a un foglio intitolato “Il Ribelle”. Qui sono le nostre radici. Probabilmente da queste nasce il tuo “Resta Ribelle”, anche se muove come tu hai detto dalla canzone dei Negrita: mi sforzo di trovare un tratto di continuità.

Abbiamo costruito questo partito proprio con la fiducia di chi immagina di conservare i principi, i valori, le tradizioni migliori senza rimanere al chiuso di formule e strumenti del passato. Sapevamo che non era facile, sapevamo di correre costantemente un rischio, ora della inattualità e ora del nuovismo. Soprattutto sapevamo che fare tutto ciò aveva un significato vero se ognuno apportava il contributo della propria formazione ideale, non delle piccole o grandi pregiudiziali di carattere ideologico. Stare insieme non doveva rappresentare l’alibi per nascondere o insabbiare le rispettive identità. L’unico imperativo, nei programmi iniziali, stava nella ricerca di una possibile sintesi più avanzata. Ce ne siamo dimenticati? In effetti, è da qui che discende l’obiezione circa il nostro ingresso nel Pse: per un verso rappresenta una forzatura per i “non socialisti”, per l’altro una rinuncia a promuovere anche in Europa una iniziativa politica originale, andando oltre le classiche e obsolete appartenenze di campo.

Oggi spetta a te guidare il Partito democratico. Hai ricevuto un mandato ampio, puoi andare avanti con speditezza ed energia. Se chiedi uno sforzo di fantasia, nell’orizzonte della novità che ti sta a cuore, ne hai senz’altro pieno diritto. Ma non è la novità che può dividerci, semmai la falsa rappresentazione che ne potremmo ricavare cedendo al gioco della mobilitazione senza obiettivi ragionevoli e convincenti. Il Paese ha bisogno di un nuovo “centro di gravità” capace di assicurare linearità e coerenza di direzione politica. Il nostro governo ha la responsabilità di aprire il varco che ancora tarda a farsi trovare in questo lungo tunnel della crisi. Alcuni indicatori sono positivi: il Pil ha smesso di cadere, l’inflazione è fin troppo bassa, le esportazioni vanno bene, il differenziale tra i tassi di mercato si è alquanto ridotto: serve, a questo punto, un cambio di passo nella politica delle riforme per innervare la ripresa economica di nuova e buona occupazione.

La stabilità di governo ha sempre bisogno di una spinta innovativa, anzi, vorrei dire, profondamente innovativa. Ciò nondimeno, l’insicurezza nei rapporti politici tra gli alleati di governo (ad esempio sulla legge elettorale e le modifiche costituzionali) non porta da nessuna parte. A forza di trasmettere segnali contraddittori, benché nel nome e nel segno del cambiamento, l’azione di pungolo degenera. Non credo che sia questa la prospettiva a cui intendiamo sottomettere il nostro operato come perno insostituibile del governo. Tanta premura occorre a garanzia della volontà riformatrice, quanta ne occorre parimenti a conferma della capacità di guida e di indirizzo. Dobbiamo passare dalla porta stretta, quindi dal lato “di servizio” che obbliga a un lavoro talvolta umile, per guadagnare alla lunga rispetto e consenso nella società.

Questo tempo, caro Matteo, riabilita la riflessione sui grandi temi del mondo e dell’umanità. Quando è caduto il Muro di Berlino, la storia era finita? Chi lo ha detto, ha sbagliato di grosso. In verità, quel fare accenno a una definitiva risoluzione di tutti i conflitti all’interno di una totalizzante società liberal-liberista, è stato un modo per annullare con arroganza il senso stesso della realtà. La crisi che ancora ci attanaglia è figlia di una perdita di realismo e quindi della consapevolezza dei limiti di natura di un qualsiasi sistema economico. Se la storia finiva, allora doveva finire – ecco l’imbroglio – anche la regolazione del capitalismo. La finanza creativa, ovvero senza freni e senza remore, ha sostituito la politica in quanto forza di regolazione. Aggredito pertanto il compromesso tra democrazia e capitalismo, è subentrato il connubio perverso tra populismo e oligarchismo finanziario. Adesso paghiamo il conto di tale sconsiderata allegrezza di approccio: la società nel complesso si è impoverita, la partecipazione politica declina sempre più, i conflitti tornano ad acuirsi fino ad aprire una nuova “questione sociale”.

In questa cornice, non è rimpianto e neppure nostalgia l’evocazione di un pensiero che affonda le radici nell’humus del solidarismo e del personalismo. Chi aveva ragione prima dell’89 non può avere torto, inspiegabilmente, dopo la svolta epocale rappresentata da quella data-simbolo. Il riformismo di matrice cristiana ha dalla sua la consistenza della esemplarità e la concretezza delle prove sostenute, non senza qualità e finezza di intuizione. C’è, in altri termini, un giacimento di esperienze non sfruttato a sufficienza. Dominare gli eventi e vincere la crisi: ecco è possibile – con noi almeno lo è – a condizione tuttavia che non sia spenta la fiamma di una grande vocazione popolare di cui vanno fieri giustamente i cattolici democratici e possono altresì, con essi, andare fieri tutti coloro che hanno a cuore il destino del Partito democratico come grande cerniera sia politica che morale di una nuova Italia.

In noi deve essere forte la speranza, un grande orientamento, un proposito fecondo. Guai a restringere la nostra azione nel piccolo campo della tattica e delle opportunità individuali. Non possono mancare, nel mio e nel tuo retroterra politico, le parole di Jacques Maritain: “L’ideale supremo cui deve tendere l’opera politica e sociale dell’umanità è l’inaugurazione di una città fraterna, la quale non comporta la speranza che tutti gli uomini saranno un giorno perfetti sulla terra e si ameranno fraternamente, sebbene la speranza che lo stato esistenziale della vita umana e le strutture della civiltà si avvicineranno sempre più alla perfezione, la cui misura è la giustizia e l’amicizia”. Tutto può cambiare, se misurato con intelligenza, meno la fedeltà a ciò che si racchiude in questa riflessione di un Maestro. Non solo mio, ma anche tuo.

Giuseppe Fioroni

18 dicembre, 2013 - 15.15