Una sera passeggiavo per un sentiero, da una parte stava la città e sotto di me il fiordo. Ero stanco e malato. Mi fermai e guardai al di là del fiordo – il sole stava tramontando – le nuvole erano tinte di un rosso sangue. Sentii un urlo attraversare la natura: mi sembrò quasi di udirlo. Dipinsi questo quadro, dipinsi le nuvole come sangue vero. I colori stavano urlando. Edvard Munch (1863-1944) pittore norvegese, sembra voler spiegare, tutta la sua angoscia, probabilmente di origine patologica, provata nel dipingere il famoso quadro: “Il Grido”.
Esiste una correlazione arte e follia? Il quesito è legittimo poiché tra i grandi artisti del passato c’è una lunga schiera di nomi illustri che hanno dovuto fare i conti con la propria malattia mentale: Francisco Goya, Richard Dadd, Vincent Van Gogh, Francis Bacon, Ligabue, e tanti altri ancora.
Una spiegazione di grande interesse la descrive Cristina Bergia:
“Esistono artisti che dipingono ciò che vedono, altri che dipingono ciò che ricordano o ciò che immaginano. Il nostro cervello si modifica di fronte alla realtà ma, allo stesso tempo, è capace di cambiarla: un cervello “diverso” dovrà pertanto avere un rapporto diverso con la realtà. Nell’ arte questo “processo” può portare alla creazione di nuove realtà, che solo in parte dipenderanno dall’ “informazione sensoriale”; il nostro cervello, infatti, non ha necessariamente bisogno del continuo “flusso informativo” proveniente dai nostri sensi. I sogni, i ricordi che “rivivono” nelle immagini mentali anche, rappresentazioni “semplicemente” create dalla nostra mente testimoniano questo evento.
Un’ opera d’arte nasce dalla combinazione di ciò che l’artista esperisce “visivamente” e da come interpreta quanto gli viene comunicato dal mondo esterno. Sia l’acquisizione dell’informazione visiva, sia la sua elaborazione interiore possono essere alterate da cause patologiche. Gli effetti di gravi malattie mentali, spesso, alterando le capacità percettive ed emotive dell’artista, possono influire sulla sua espressione pittorica e testimoniano come la storia di vita del pittore entri a far parte integrante della sua opera.
Tutto ciò affiora nei quadri di alcuni grandi pittori in momenti particolari della loro vita”.
Al di là dell’arte, le “trappole della mente” hanno da sempre incuriosito l’essere umano. Mara, 43 anni scrive: In questi giorni ho rivisto un vecchio film, dove la protagonista era una giovane schizofrenica. Ciò che mi ha colpito maggiormente è che era curata con una terapia a loro dire, delle parole e dell’amore. E’ possibile? Oppure tali cure appartengono solo alla finzione cinematografica? Mi può dire qualcosa in più su questa malattia?
La schizofrenia è costituita da una serie di disturbi che si manifestano con caratteristiche alterazioni del pensiero, dell’umore, del comportamento. Fu Emile Kraepelin a dare una descrizione fenomenologica dettagliata dei sintomi schizofrenici. Tale autore coniò il termine “demenza precoce” basandosi sull’osservazione che la malattia tendeva a regredire, dal deterioramento iniziale, fino allo stato demenziale. Oggi questa definizione è superata e si deve a un altro grande della psichiatria, Eugen Bleurer, l’attuale denominazione chiamata, sin dal 1911, schizofrenia.
A tutt’oggi non vi è un accordo unitario sulle cause di questa malattia, anche se possiamo sicuramente dividere le teorie in due gruppi: quelle basate su fattori organici, e quelle basate su fattori psicosociali. La tendenza attuale, e quindi quella del film che Mara ha visto, è di trattare prevalentemente la malattia come originata da fattori psicosociali, (la capacità di formare rapporti soddisfacenti con gli altri e di mantenerli). Lo schizofrenico non riesce a stabilire dei validi compromessi tra le opposte esigenze degli impulsi istintivi, della coscienza e della realtà esterna.
In tale sindrome vi sarebbe un insieme di cause: conflitti intrapsichici legati allo scarso funzionamento dell’io; un rapporto disturbato madre figlio; la comunicazione patologica; oppure interazioni familiari patologiche.
Lo schizofrenico, farebbe grandi sforzi per inserirsi tra gli altri, con esposizione a delusioni, frustrazioni, e forte senso di auto-svalutazione. Tutto ciò stabilirebbe la tendenza a regredire verso livelli psichici inferiori.
La schizofrenia si divide in diverse forme cliniche:
Semplice (mancanza d’interesse nel rapporto umano e col mondo esterno);
Ebefrenica (risposte affettive superficiali e inadeguate);
Catatonica (atteggiamenti motori anormali o inibiti, o iperattivi);
Paranoide (deliri e allucinazioni associati ad autismo e ambivalenza);
Schizzo-affettiva (profondi disturbi del pensiero, degli affetti e del comportamento).
La cura migliore per questa patologia sembra essere quella integrata: farmaci con aggiunta di psicoterapia. Quest’ultima, che può coinvolgere anche i familiari, è efficace soprattutto nella gestione dell’isolamento e nella disperazione in cui il paziente si trova.
Nell’accezione comune schizofrenico è colui che ha la ‘mente divisa’, scissa, che passa da una fase a quella contraria in tempi relativamente brevi (bipolarismo). Il termine è spesso usato, impropriamente ma rendendo bene il concetto, dai mass media quando si trovano a descrivere il pensiero di persone che cambiano rapidamente i propri concetti, le proprie idee. In politica, oggi più di ieri, ne abbiamo grandi esempi.
Angelo Russo