Viterbo quartiere culturale di Roma?

Francesco Mattioli
- Ricordo un incontro del movimento studentesco con alcuni amministratori e imprenditori locali, sulle prospettive della cultura a Viterbo. Forse era il 1969 o il 1970, insomma una quarantina di anni fa.
Figurarsi se gli studenti sessantottini d’allora e i politici viterbesi potevano andare d’accordo, ma su un paio di punti le controparti si erano trovati in singolare consonanza: intanto, che lo sviluppo della cultura necessitava di professionalità vere e non di cantori improvvisati; e, soprattutto, che doveva esistere un “progetto”, che cioè non si può brancolare da un‘idea all’altra, tanto per fare o per mettersi qualche momentanea medaglia sul petto.
Ho anche un altro aneddoto da proporre, e risale a venticinque anni più tardi, quando da assessore provinciale alla Cultura mi venne da dare seguito a quell’antico proponimento, e tentai non solo di delineare un progetto unitario, ma addirittura osai pensare che tale progetto potesse essere autonomo e originale e non una derivazione più o meno condizionata dalle linee guida regionali, per il solo fatto che la Regione tirava fuori i soldi.
Ho usato due verbi, “tentare” e “osare”, che la dicono lunga su come andarono a finire le cose: i non possumus e i non volumus si sprecarono, per vari motivi, che non sono cambiati granché negli ultimi vent’anni.
Di passata, ricordo che ancora oggi il cartellone dei maggiori teatri viterbesi lo detta di fatto la Regione.
La cultura viterbese ha sempre sofferto di provincialismo; raramente è stata capace di elaborare un progetto autonomo, e quando ha tentato di farlo si è sovente affidata ad avventurieri, magari di gran nome, che tuttavia alla prima occasione se la sono svignata con il malloppo.
Certo, non è che la classe politica viterbese abbia fatto molto per trattenerli, ma è anche vero che questo rapporto tra Roma e “burini” provinciali è vecchio, è consolidato e sapientemente sperimentato in tutte le province del Lazio.
Non è necessario citare esempi; chi vive la cultura viterbese da quarant’anni sa a cosa mi riferisco.
Oggi, dagli autori di Caffeina, viene un nuova e apparentemente vincente soluzione, che mette assieme qualità, creatività, professionalità e imprenditorialità, per cercare di sollevare o meglio ancora, di innalzare le sorti culturali della città.
Affiancherei a loro anche gli organizzatori di Tuscia in Jazz, di Tusciaopera Festival e di altre manifestazioni culturali che stanno comunque crescendo.
Queste iniziative suggeriscono che per creare cultura, anche al tempo di internet, sono necessari sei ingredienti: 1) un progetto, che abbia un senso, un’identità, un obiettivo; 2) una risonanza mediatica, che si ottiene adattando di volta il volta il format alle esigenze del “mercato” della cultura; 3) un coordinamento generale fra i soggetti progettisti, pubblici e privati; 4) un radicamento territoriale, necessario qualora l’investimento culturale sia anche funzionale ad una politica di valorizzazione delle risorse locali;5) una mentalità professionale, che sappia fare cultural management; 6) una disponibilità degli amministratori e degli imprenditori locali a fare squadra.
Il progetto è fondamentale: è la sua “specificità” e la sua “incisività” a decretarne le fortune. La risonanza mediatica deriva sì dal progetto, ma anche dalla possibilità di sfruttare i trend in atto, ad esempio passando con duttilità dalla kermesse letteraria (che oggi tira molto, forse troppo…) allo sperimentalismo espressivo senza perdere di coerenza con il progetto generale.
Il coordinamento delle iniziative trasforma il fattore tempo in una risorsa, evitare sovrapposizioni e crea un circolo virtuoso che fornisce reciproco sostegno ai progetti.
Il radicamento territoriale ha senso se c’è la volontà di creare un prodotto “glocale”, sfruttando le risorse e le vocazioni del territorio e gli indirizzi delle politiche culturali degli enti locali (se non ci sono si possono indurre…).
La professionalità fa la differenza con il provincialismo, garantisce l‘effettiva realizzazione del progetto e sgombera il campo dall’improvvisazione e dal velleitarismo.
La disponibilità degli enti locali è l’unica variabile incontrollabile da parte del progettista privato, perché presuppone che gli amministratori e gli imprenditori sappiano preparare il terreno, in termini di vivibilità urbana e di accoglienza, innanzitutto, ma anche in termini di burocrazia, ma può diventare un fattore fondamentale ove si crei reale sinergia tra pubblico e privato.
Direi che su tutto ciò Filippo Rossi ha detto molto, e molto bene. Poi, ha concluso con una affermazione non di poco conto: “Viterbo ha la sua vocazione nella cultura. Deve diventare il quartiere culturale di Roma. Perché Viterbo non è vicino Roma. E’ Roma”.
Capisco la provocazione. Ma era una provocazione? Se fossi stato presente al dibattito, glielo avrei chiesto volentieri. Perché un dubbio mi attanaglia.
Viterbo e/o San Pellegrino il “quartiere culturale di Roma”? In che senso? A orecchio, sento qualche nota discordante. Certo, significa spostare masse di romani nel cuore turistico della città, che è il sogno di qualsiasi operatore economico della Tuscia; significa guadagnare l’attenzione di chi controlla il cordone della borsa della Regione; significa garantirsi eccellenze culturali in campo letterario, artistico e scientifico entrando in un giro di qualità internazionale.
E’ strano però che mentre Rossi prefigura un più forte legame fra la Capitale e Viterbo, quasi a fare di questa città un salotto buono della metropoli, gli enti locali tentino ancora una volta di fare lobby in campo economico, culturale, turistico, e di fare “sistema”, con città, province e regioni viciniori: Civitavecchia, certo, e forse Rieti, ma soprattutto con la Toscana (Grosseto e Siena), e con l’Umbria (Orvieto e Terni), quasi a voler riequilibrare la forza inevitabilmente centripeta della Capitale, e per sciogliersi da un abbraccio fatale che sembra quello che avvampa Mercurio, troppo vicino al Sole.
Siamo proprio sicuri che non si possa elaborare un progetto cultura, a Viterbo, che sappia essere autonomo, e quindi “interessante” a livello nazionale e internazionale, senza dover sottoscrivere un’ipoteca, più o meno vincolante, con Roma?
Rossi dice che Caffeina non è “viterbese”, è un evento nazionale; vero, ed è merito suo che le cose stiano così, e si tratta di una valutazione allettante perché dimostra che si può fare qualcosa a prescindere da certi condizionamenti territoriali, cioè evitando ogni sorta di provincialismo.
Ma l’affermazione suona allo stesso tempo minacciosa, perché significa che Caffeina si può fare ovunque, e quindi potrebbe trasmigrare da Viterbo, ove trovasse ambienti e proventi più vantaggiosi altrove.Qualcuno ricorderà come il maestro Menotti tormentasse continuamente il comune di Spoleto e la Regione Umbria, minacciando di spostare la sua creatura addirittura fuori dall’Italia…
Certo, una sottile minaccia del genere potrebbe essere salutare per la città, farebbe da stimolo, da sfida, sarebbe occasione per una crescita comune, per circoscrivere la tendenza a trasformare in sagra paesana la maggior parte delle iniziative cosiddette culturali che proliferano a Viterbo, specie tra maggio e settembre.
Filippo Rossi dice di essere mezzo viterbese e mezzo romano; in un certo senso lo sono anche io, visto che insegno da quarant’anni alla Sapienza. Un’esperienza che mi è bastata da un lato per apprezzare il potenziale del bacino culturale della metropoli, dall’altro per sapere come la pensano sui Sette Colli a proposito della provincia.
Vogliamo fare un elenco degli egoismi capitolini? Dove si ferma il raddoppio della Cassia? Dove si fermano i raddoppi delle ferrovie? Dove si vorrebbero scaricare le varie servitù del territorio romano, dai rifiuti alle centrali energetiche? Come sognerebbe Alemanno di risolvere il problema dei nomadi? Come interpretano a Roma e a Ciampino l’aeroporto a Viterbo? Viterbo che diventa il quartiere culturale di Roma… mah, mi si permetta di diffidare.
Preferirei che le forze culturali, pubbliche e private, della città facessero “rete”, come si dice oggi, a livello progettuale, riuscendo ad elaborare un progetto unitario di alto profilo, capace di far crescere la comunità viterbese nel suo insieme, giocabile anche con un’abile strategia mediatica sul mercato nazionale e internazionale, che possa avvalersi delle più avanzate risorse creative, inventive ed economiche dell’imprenditorialità privata, ma soprattutto in grado di definire i motivi per cui un progetto del genere dovrebbe scaturire da Viterbo e non da Portofino o dai Parioli.
Un sogno? Non necessariamente, se i soggetti progettisti sono quelli giusti, e con la mentalità giusta. Lo insegna proprio Filippo Rossi.
Francesco Mattioli