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L'Alambicco di Antoniozzi

Teatro Unione, la fondazione è il male minore

di Alfonso Antoniozzi
<p>Alfonso Antoniozzi</p>

Alfonso Antoniozzi

- Comodamente seduto al tavolo del mio camerino del Teatro Nuovo di Spoleto, uno dei due teatri funzionanti della cittadina umbra, e grazie alla connessione wireless gratuita gentilmente offerta dal Festival, in una pausa tra le prove dello spettacolo inaugurale mi collego a TusciaWeb e leggo di una polemica sorta nei giorni scorsi sull’opportunità o meno di far diventare il Teatro dell’Unione una Fondazione.

(Se non aveste presente Spoleto, vedo di raccontarvelo brevemente: è quel paese di meno di quarantamila abitanti che rappresenta l’Italia in ogni continente grazie al Festival dei Due Mondi…un po’ quello che avrebbe potuto essere Viterbo se cinquantadue anni fa i nostri concittadini non fossero stati talmente gretti da sfanculare Giancarlo Menotti quando era alla ricerca di una sede per il neonato Festival.)

Leggendo, dicevo, di questa polemica, non posso che simpatizzare con chi chiede dove siano finiti i (pochi) soldi incassati dagli spettacoli ospitati dal Teatro, e soprattutto sono con lui quando dice che il teatro non è delle amministrazioni ma è “nostro, in quanto patrimonio culturale da valorizzare e da far vivere”. Sottoscrivo in pieno.

Simpatizzo e sottoscrivo molto meno quando si mette di traverso a un’eventuale Fondazione, perché non è che le leggi vigenti in materia teatrale ci diano troppo scampo: o Teatro Comunale (ossia improduttivo, come è adesso) o Teatro di Tradizione (non ne abbiamo i requisiti) o Fondazione di diritto privato a semipartecipazione pubblica (il sindaco ne è il Presidente).

Il Teatro Unione, come vado ripetendo da tempo a costo di sembrare noioso come la campana che mi sveglia ogni domenica alle sette e mezza in punto, allo stato delle cose non esiste.

Esiste come spazio, ma non come teatro, laddove si intenda per teatro un meccanismo produttivo e formativo non solo del pubblico ma anche delle singole professionalità che vi lavorano. Il Teatro Unione è il salotto buono della nonna, incellofanato in attesa di chissà quale misteriosa visita e riaperto solo per le grandi occasioni. Di fatto, non è un Teatro. Non ospita, da tempo, neanche le tanto sbandierate “prime nazionali”, che in realtà altro non sono che prove generali di spettacoli che apriranno, con tutti i fragori della stampa, altrove.

La scelta di affidare il Teatro a una Fondazione (che, per legge, deve avere un bilancio in attivo) mi pare il male minore: meglio in mano a privati che sappiano far fruttare il Teatro che in mano a qualsiasi amministrazione comunale si sia fin qui succeduta, la cui gestione delle faccende culturali e teatrali è sotto gli occhi di tutti e finisce in mano al primo che passa, purché provvisto di un sostanzioso parco voti.

La paura che il teatro venga sottratto ai viterbesi mi pare quantomeno ridondante visto che il teatro ci è da tempo stato sottratto, a meno che non vogliamo considerare due saggetti, una decina scarsa di ospitate l’anno e un incontro dei facchini col vescovo come un’intensa attività teatrale.

Ben venga, a parere mio, chi dice di essere in grado di gestire, anche privatamente, il Teatro Unione e di saper mettere a frutto le sue potenzialità piuttosto che continuare a vantarci di un bene che, in effetti, non esiste.

Cosa preferirei a una Fondazione? E’ presto detto: un teatro interamente Comunale, ossia pubblico, messo in mano a una persona di teatro, con il Comune che si fa carico dei costi vivi (luce, riscaldamento, manutenzione ordinaria, vigilanza) e che sia gratuitamente aperto a qualsiasi gruppo viterbese voglia usarlo per far spettacolo. Parallelamente, usando i fondi che la Comunità Europea destina alla formazione, renderlo sede di corsi per macchinisti, elettricisti, truccatori, sarte, parrucchieri, attori, creando così nuove professionalità che possano mettere in scena spettacoli con l’obiettivo finale di realizzare una compagnia stabile e di dar vita a un teatro morto, e ovviamente ferma restando la libertà di ospitare (a pagamento e senza vincoli di sorta) qualsiasi spettacolo si voglia.

Ma poiché la storia ci insegna che Viterbo non è terra di sogni, vedi lo sfanculato Menotti, allora evviva la Fondazione: sarà sempre meglio del nulla eterno cui pare condannata la povera sala del Vespignani.

Così la penso io, ma in fondo cosa volete che ne sappia: io non sono un uomo politico, sono semplicemente un teatrante.

Alfonso Antoniozzi

17 giugno, 2011 - 10.31