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Mafia - Il boss della strage di Capaci avrebbe continuato a gestire il suo patrimonio dal carcere

Giovanni Brusca accusato di riciclaggio

<br />Giovanni Brusca

Giovanni Brusca

Riciclaggio, intestazione fittizia di beni e tentata estorsione.

Sono le accuse che pesano su Giovanni Brusca, l’uomo della strage di Capaci. Colui che, il 23 maggio del ’92, azionò il telecomando dell’esplosivo che fece saltare in aria il magistrato Giovanni Falcone, la moglie e la sua scorta.
Nel cuore della notte, i carabinieri di Monreale si sono presentati con un ordine di perquisizione al carcere di Rebibbia, dove Brusca, oggi collaboratore di giustizia, è recluso dal ’96.

I magistrati lo ascolteranno questo pomeriggio.
Secondo l’accusa il pentito avrebbe mentito sul suo patrimonio. Un impero che l’ex capomafia di San Giuseppe Jato avrebbe continuato a gestire sia in carcere che fuori, durante le visite alla famiglia concessegli dal tribunale di sorveglianza di Roma.

A inchiodare il pentito, una lettera inviata a un prestanome e fotocopiata dagli inquirenti prima che giungesse a destinazione. Poche righe, nelle quali Brusca avrebbe scritto di aver mentito spudoratamente sui suoi averi.
Sull’entità del suo patrimonio, sono in corso indagini approfondite della magistratura di Palermo, che ha disposto una serie di perquisizioni a raffica degli appartamenti di parenti e conoscenti del pentito. I carabinieri avrebbero setacciato le abitazioni di alcuni prestanome a Rovigo, Chieti, Milano e Palermo, oltre alla residenza segreta della moglie di Brusca. E’ qui che i carabinieri di Monreale avrebbero trovato 188mila euro in contanti.

Gli investigatori cercano soprattutto opere d’arte, probabilmente rubate, che il pentito terrebbe nascoste in Sicilia.
Giovanni Brusca è conosciuto come uno dei boss più spietati della criminalità italiana. Noto agli ambienti mafiosi come “u verru” (il porco) e “lo scannacristiani”, confessò di aver spinto il tasto del radiocomando che fece esplodere l’auto di Falcone. Ma anche di aver strangolato e sciolto nell’acido il piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio di un pentito.

Dal giorno del suo arresto, il 20 maggio del ’96, iniziò a collaborare con la magistratura e questo fece di lui un teste chiave.
Fu il primo a parlare del papello e delle trattative Stato-mafia dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio. Ma ci vollero tre anni prima che fosse incluso nel programma di protezione riservato ai collaboratori di giustizia. Programma dal quale rischia, ora, di essere escluso.

17 settembre, 2010 - 10.18