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L'alambicco di Antoniozzi

A Viterbo non se po fa’…

di Alfonso Antoniozzi
<p>Alfonso Antoniozzi</p>

Alfonso Antoniozzi

– Io amo la mia città, e forse questo si era già capito.E’ una premessa necessaria, perché adesso devo ammettere pubblicamente che ci sono due cose che davvero, ma davvero, non riesco a mandar giù.

Due atteggiamenti, per esser precisi, due modi di affrontare le cose, due scuole di pensiero che davvero, ma davvero, vorrei veder cambiate prima di raggiungere la Scuola dei Pensieri Migliori (con uso di futuro adiacente centro commerciale).

Il primo atteggiamento si può riassumere con questa frase: “Eeeeh, sarebbe ‘na bella idea ma a Viterbo non se po fa’.” Non ho parole per descrivere quanto questa frase mi faccia tirar giù interi calendari di moccoli.

Qualsiasi iniziativa, qualsiasi cosa venga in mente, qualsiasi idea che porti un briciolo di innovazione o che richieda un minimo di sforzo immaginativo, viene accolta con: “A Viterbo non se po fa’”.

Esempio di conversazione:

- “Sai, mi piacerebbe aprire un centro culturale polivalente, con mostre, iniziative teatrali, rassegne cinematografiche.”
- “Bella idea, dove?”
- “Mah, per esempio si potrebbe creare una cordata di imprenditori, oppure coinvolgere qualche ditta perché ci ceda un capannone in disuso…”
- “Eeeeeeeehhh… (crollo di braccia, occhi al cielo), sarebbe bello, ma a Viterbo non se po fa’”.

Collaborazione tra realtà teatrali? Non se po fa’. Aprire una libreria dello spettacolo? A Viterbo non se po fa’. Organizzare una rassegna di teatro medievale? A Viterbo non se po fa’. Un salone permanente dei Sapori della Tuscia? Non se po fa’. E via discorrendo.

A guardarsi intorno, l’unica cosa che se po’ fa pare siano le case nuove, il cui numero cresce ma curiosamente non in maniera direttamente proporzionale alla crescita della popolazione: siamo sempre gli stessi, ma costruiamo altre case, palazzine, villette bifamiliari…scusate, ma non potremmo rivalutare il centro storico dando incentivi fiscali o economici a chi acquista e restaura le vecchie case? “Ma che see gojo? A Viterbo? Non se po fa’”.

Il secondo atteggiamento lo riassumo invece come segue: piuttosto la morte che la collaborazione.

Se in una città piccola come la nostra si imparasse a collaborare tra le varie realtà, diventeremmo un paradiso terrestre. E invece, ogni compagnia teatrale amatoriale per conto suo, per carità, e convinti di far meglio degli altri, i cui spettacoli non si vanno a vedere, mai.
Idem dicasi per i cori amatoriali: uno contro l’altro, ciascuno sicuro di esser migliore.

E per le associazioni. E i movimenti. E i festival. E Le rassegne.
Ognuno per conto suo, ognuno dritto per la sua strada (l’unica che conosce, dopotutto). Ognuno saldamente, inoppugnabilmente certo di esser superiore.

Ho citato queste realtà perché le conosco, ma sono sicuro che in altre realtà che mi sono ignote non ci si comporti in maniera poi tanto diversa: è purtroppo, questo, un sentire comune, come l’atteggiamento rinunciatario a priori di cui al punto uno di questo articoletto.

Nel bando della Macchina di Santa Rosa si obbliga il progettista a inserire elementi di Viterbesità.

Bene: suggerisco di sostituire questi due elementi ai fin troppo utilizzati profferli, leoni, palmizi e palazzi papali.

Il risultato sarà una Macchina costituita unicamente da un piedistallo vuoto, in onore del fatto che “a Viterbo non se po fa’”, e cento facchini a spasso per le strade ognuno per conto suo, per ricordare a tutti che la collaborazione non è nel dna della nostra città.

Il tre settembre non succederà niente. Ognuno a casa sua.

Più viterbesità di così!

Alfonso Antoniozzi

8 aprile, 2011 - 17.12